Addio Sinisa, hai perso solo l'ultima battaglia

di Claudio Mangini

3 min, 56 sec

Un duro dal cuore buono, con un sinistro studiato dall'università di Belgrado e le spalle larghe nel prendere posizioni anche impopolari

Addio Sinisa, hai perso solo l'ultima battaglia

No, stavolta non è riuscito a mantenere la parola: «La batterò giocando all’attacco», aveva detto dopo aver scoperto di essere malato di leucemia. Lui, Sinisa Mihajlovic, il guerriero – perché la guerra l’aveva vissuta da vicino, la conosceva, oltreché per la sua indole – se n’è andato a soli 53 anni. Non ce l’ha fatta. E nel comunicato della bella e forte moglie Arianna e della sua numerosa famiglia (cinque figli, la nipotina Violante, la mamma, il fratello) lo ricordano così: «Uomo unico, professionista straordinario, disponibile e buono con tutti». Spiegano: «Coraggiosamente ha lottato contro una orribile malattia».

Sinisa era tutto questo. Un duro dal cuore buono, fuor di retorica. Uno con le spalle larghe anche quando prendeva posizioni scomode, impopolari, come nel professare il suo nazionalismo spinto, l’amicizia col capo ultrà leader delle Tigri di Arkan Zeljko Raznatovic. Ma, appunto, lui ricordava: «Io li ho visti gli amici morti, li ho avuti vicino i bambini con malformazioni dopo le bombe americane». Figlio di madre croata e padre serbo, nato a Vukovar, i primi calci a Borovo, poi nel Vojvodina e quindi il gran salto nella Stella Rossa. In quella squadra di fenomeni che si laureò campione d’Europa nella stagione 1990-91. Sinisa, all’epoca, era un esterno sinistro d’attacco, boccoli biondi lunghi, fisico notevole e viso da bambino. E, proprio in Coppa dei Campioni, il primo incrocio con la Sampdoria, una delle squadre del destino, forse in assoluto la squadra del destino. E’ in campo in quella partita a Sofia, stagione 1991-92, campo neutro forzato per i belgradesi, per via delle sanzioni legate alla guerra, Il prima è da incubo, con gli ultrà della Stella Rossa che preparano agguati alle famiglie arrivate da Genova, molti armati di mazze da hockey. Una giornata da guerriglia urbana e, ala fine, il 3-1 per la Sampdoria che vola verso la finale di Wembley.

Sinisa, alla fine di quella stagione, passa alla Roma. Due stagioni non trascendentali, poi il passaggio alla Sampdoria. Non c’è più il suo connazionale Vujadin Boskov, per cui Sinisa prova affetto e rispetto, ma Sven Goran Eriksson in panchina. Alla Sampdoria incrocia Mancini, oltreché un nugolo di grandi giocatori: dal connazionale Jugovic a Gullit, Vierchowod, Lombardo, Platt, Ferri e Zenga. In campionato, niente di che, in Coppa delle Coppe avanti fino alla semifinale.

Sinisa in blucerchiato diventa punto di forza, perno difensivo. E goleador: 12 gol in 110 partite, giocando spesso da libero. E’ uno spavaldo sorridente. Il suo sinistro su punizione è studiato dall’Università di Belgrado. Un miracolo balistico che fa volare il pallone fino ai 160 all’ora. Lui ghigna, fuori dallo spogliatoio di Bogliasco. Qualcuno gli ricordo un altro specialista, che alla Sampdoria ricordano bene, l’ex genoano Branco. Sinisa guarda dritto in faccia l’interlocutore, stira il sorriso: «Sì, ma il più bravo sono io».

Va alla Lazio, poi all’Inter. Vince tanto: lo scudetto a Roma, una Coppa delle Coppe, la Supercoppa europea, due Supercoppe iutaliane, due coppe Italia, due coppe Italia anche in nerazzurro e lo scudetto nell’anno di Calciopoli. Litiga con Vieira, prende a sputi Mutu, è accusato di razzismo. Un giorno spiega: «Il razzismo non è questione di pelle. A me gridano “serbo di merda”. C’è altro razzismo. Ma vengano a dirmelo a casa, li aspetto».

Quando smette, apre l’altra carriera, quella di allenatore. Inizia come secondo di Mancio. Che è un amico speciale, fanno anche le vacanze insieme in Sardegna, litigano pure più avanti negli anni e la pace, purtroppo, è in una stanza d’ospedale dove Mihajlovic è ricoverato.

Bologna, Catania, la Fiorentina, la Nazionale serba poi la Sampdoria. Quando arriva a Genova cita John Fitzgerald Kenney, il presidente Usa ucciso a Dallas. Guarda un po’. Perché Sinisa è onesto intellettualmente. E’ una capa tosta, ma a modo suo è libero e senza preclusioni: «Non chiedetevi cosa può fare la Sampdoria per voi, ma cosa potete fare voi per la Sampdoria».

Lui fa tanto, la salva, resta un altro anno. Poi se ne va: il debito di riconoscenza per la fidua ricevuta è saldato, l’affetto resta, anche un rapporto forte con Massimo Ferrero. Poi Milan, Torino, una parentesi brevissima allo Sporting Lisbona.

E’ storia di ieri, non solo calcistica. Bologna lo ama, gli dona la cittadinanza. Arriva anche – lo annuncia lui il 13 luglio 2019 - la maledetta malattia. Sinisa lotta, ma stavolta non basta.