Ex Ilva: oltre trent’anni di errori e omissioni

di Paolo Lingua

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Ex Ilva: oltre trent’anni di errori e omissioni

Come annunciato il ministro Orlando ha incrociato incontri e discussioni. Dalla prefettura alle istituzioni locali e ai sindacati. Non è emerso molto o quantomeno nulla di quanto già si sapesse. D’altro canto il ministro non aveva reali poteri o spazi decisionali operativi. Tutto è rinviato all’appuntamento romano dell’ 8 luglio. Vedremo se qualcosa è maturato. Ma, forse, alle spalle della vicenda che coinvolge la siderurgia italiana, vale la pena di dire la verità una volta per tutte. E vale una premessa: la vicenda che coinvolge la ex Ilva è frutto di oltre trent’anni di errori e di omissioni da parte di chi – pubblico e privato – ha gestito il settore. E oggi, come accade quando gli errori si  trascinano senza rimedio, si è arrivati a un punto nel quale le scelte sono ormai ridotte al minimo. La storia della siderurgia del dopoguerra decolla all’inizio degli anni Cinquanta quando si decide di dar vita a un grande sistema di produzione dell’acciaio e di tutti i suoi sottoprodotti.  Nasce a Genova, che sarà all’inizio la sede della direzione nazionale, una grande acciaierie nelle aree di Cornigliano costiera e di Campi una struttura produttiva poderosa che arriva a circa 12 mila dipendenti, con un sistema collegato di imprese private che ne copre altrettanti. In Carignano avrà sede la direzione nazionale che sforerà i 2 mila dipendenti. La struttura è funzionale al cosiddetto “boom” economico. Poi, nel corso degli anni la azienda (che ha collegamenti a Novi Ligure, Piombino, Bagnoli e Taranto, superando i 50 mila dipendenti) scenderà nettamente e si arriverà, dopo un periodo di massicci prepensionamenti di lavoratori compresi tra i 55 e i 60 anni, a un forte ridimensionamento che porterà negli anni ottanta, alla vendita del settore pubblico al gruppo siderurgico privato dei Riva.  

Durante la gestione privata emergono le problematiche relative alla situazione dell’inquinamento ambientale di Taranto, frutto delle emissioni legate alla produzi9one cosiddetta “a caldo”. Nel frattempo tutti gli stabilimenti sono stati eliminati a ridimensionati. Emergono le azioni giudiziarie e successivamente l’esclusione dei Riva e una gestione commissariale. Una condizione provvisoria che viene superata con la vendita dell’azienda ad Arcelor Mittal, gruppo siderurgico internazionale. Ma la gestione di Arcelor Mittal, nel volgere di questi ultimi anni, si è configurata con continui incontri, ma conclusivi, con il governo e con i sindacati, con le decisioni impopolari di cassa integrazione e di annunciate  potenziali riduzioni consequenziarie dei personale. In realtà, mentre sono fioccate pesanti decisioni da parte della magistratura pugliese e al tempo stesso è stato deciso del ritorno dell’azienda in mano pubblica, tramite Invitalia, con la messa in netta minoranza di Arcelor Mittal, la situazione di è ulteriormente deteriorata. Con una condizione per molti aspetti paradossale. Infatti mentre si annunciano massicce quote di cassa integrazione e di ridimensionamento dell’organico in tutti gli stabilimenti italiani crescono le richieste di acciaio sul mercanto in funzione della annunciata ripresa produttiva, dopo la pausa dovuta alla pandemia. Una condizione assurda che però  è frutto d’un altro aspetto della situazione generale che nessuno (governi di tutti i colori e privati) è stato capace di gestire, un po’ per gravi errori di valutazione un po’ per cinico opportunismo. In realtà il potenziale dell’ex Ilva sul piano del mercato è alto e tende a crescere, ma è necessario e urgente ristrutturare, in termini di rischi ambientali,  lo stabilimento-guida di Taranto.

L’investimento – destinato ormai a essere realizzato con capitale pubblico – toccherà  allo Stato. Si parla di due miliardi. Fondi che nessuno ha mai voluto tirare fuori e che ora, nel gioco dei quattro cantoni, toccano al reale ultimo proprietario. Questa è la realtà dell’ex Ilva che per il momento pagano solo i lavoratori. E questo spiega la loro insofferenza oltre che la viva inquietudine dei sindacati. Difficile capire come andrà a finire perché non è facile, né forse possibile, trovare compromessi.